Diplomazia delle Risorse

Le materie prime e il sistema internazionale nel Novecento
 

L'ENI alla ricerca di un partner arabo:
Egitto e Iraq, 1955-1962

Alberto Tonini
Università di Firenze

Il presidente dell'ENI fu da sempre attento alle implicazioni politiche legate allo sfruttamento delle risorse petrolifere: aveva prima di altri intuito il risentimento con il quale l'opinione pubblica dei paesi arabi guardava al flusso di ricchezza che lasciava il Medio Oriente per depositarsi nelle casse delle compagnie petrolifere occidentali e aveva probabilmente capito che il fenomeno del nazionalismo arabo, del quale il presidente egiziano Nasser fu il maggior interprete in quegli anni, si sarebbe presto saldato al sentimento di rivalsa nei confronti di coloro, considerati eredi del colonialismo, che venivano accusati di sfruttare l'oro nero a danno del popolo arabo. A fronte di queste considerazioni, quindi, Mattei era evidentemente disponibile a rinunciare a guadagni immediati pur di ottenere la fiducia dei leader del nazionalismo arabo, nella convinzione che quella fosse la scelta politica vincente per gli anni a venire. La circostanza che egli agisse in qualità di presidente di una holding pubblica, unita alla ampia interpretazione delle sue prerogative così come descritte nello statuto dell' ENI e alla sua innegabile abilità di organizzatore e di uomo di pubbliche relazioni, fornirono a Mattei un formidabile strumento di penetrazione nel mercato mondiale delle risorse energetiche, e nello stesso tempo lo resero uno dei principali ispiratori e fautori della politica estera italiana di quegli anni.


L'ingresso dell'ENI in Egitto

A partire dal 1954 Mattei comprese di avere interessi comuni con il presidente egiziano Nasser. Nel ritratto che ne fa Italo Pietra, il presidente egiziano ricordava per molti aspetti il petroliere italiano: "La sua voce è insinuante; gli occhi possono essere dolci, da gazzella, o duri, da belva. E' incline ai risentimenti. Non ha fame d'oro. Per dirla con parole sue, che ripete spesso, 'non ha sogni personali'. Secondo un agente della CIA, 'il guaio, con Nasser, è che non si può comprare'. Si capisce subito che l'uomo della Rivoluzione araba e l'uomo della Resistenza simpatizzano, accomunati dalla ruggine contro il colonialismo".
Il primo contatto fra Mattei e il presidente egiziano avvenne per interposta persona, nell'autunno del 1954: il Sottosegretario del ministero del Commercio e dell'Industria, il giovane colonnello Mahmoud Younes, si recò a Roma per incontrare il fondatore dell'ENI e valutare le possibilità di cooperazione fra il suo governo e l'ente petrolifero italiano.
Commentando quell'incontro, Mattei rivelò di essersi convinto "a considerare con la massima serietà l'eventualità di stabilire un rapporto diretto di collaborazione fra il governo egiziano e il gruppo da me presieduto" e si ripromise di esaminare con cura quali possibilità esistessero di conciliare le eventuali diverse necessità e i rispettivi interessi. Ciò sarebbe stato facilitato, secondo Mattei, "dallo spirito di sincera fiducia al quale sono improntati i nostri rapporti personali" e dal fervore di opere che stavano spingendo l'Egitto "verso uno sviluppo industriale di primaria importanza".
A questo primo incontro, il cui esito fu considerato incoraggiante da ambo le parti, seguì l'invio di una missione tecnica in Egitto, con l'incarico di studiare le possibilità esistenti in termini di nuovi giacimenti, ammodernamento degli impianti di raffinazione, espansione del mercato dei prodotti petroliferi in generale e del GPL in particolare.

L'ENI iniziò le sue attività in Egitto nei primi mesi del 1955, acquistando il 20% della IEOC, la International Egyptian Oil Company, dove già erano presenti i belgi della Petrofina. La IEOC aveva appena ottenuto dal governo del Cairo diciassette concessioni nel Sinai occidentale.
Nello stesso tempo il gruppo ENI si era assicurato, attraverso la SNAM e in collaborazione con la Dalmine, l'incarico per la costruzione di un lungo oleodotto, del diametro di 32 centimetri, che doveva unire la raffineria governativa di Suez con la città del Cairo, distante 145 chilometri. Alla gara d'appalto, apertasi nel novembre 1953, avevano partecipato dodici imprese europee e nordamericane; fra i membri della commissione aggiudicatrice figurava il colonnello Mahmoud Younes. La supervisione dei lavori per la costruzione dell'oleodotto fu affidata al direttore della raffineria governativa di Suez, che era lo stesso colonnello Younes.
Alla cerimonia di inaugurazione dell'oleodotto, Nasser ebbe parole di apprezzamento per gli ottimi risultati della collaborazione italo-egiziana, testimoniati dai tempi rapidi con i quali si era giunti a quella inaugurazione: "Auspico che questa collaborazione possa continuare anche per l'avvenire, nell'interesse dei nostri due paesi". Durane la cena di gala offerta dal governo egiziano, il colonnello Younes sottolineò quanto avesse apprezzato "la sincera collaborazione dell'industria italiana, ottimo esempio di assistenza tecnica disinteressata". Nella replicare al suo ospite, Mattei lo assicurò che "vi saremo sempre vicini in quest'opera tanto difficile, quella del petrolio, così importante per il vostro sviluppo".
In un'intervista concessa in quell'occasione al quotidiano economico La Bourse Egytptienne, il presidente dell'ENI si disse convinto che "un paese che in pochi anni può realizzare la sua autarchia petrolifera non ha niente da temere per il futuro. […] Il sostegno della finanza internazionale diventa secondario".
L'oleodotto venne inaugurato il 24 luglio 1956, alla presenza di Nasser e Mattei. Mattei rientrò a Roma il 25. Il giorno seguente Nasser annunciava al mondo la nazionalizzazione della Compagnia del canale di Suez.


L'ENI e la crisi di Suez

Dell'atteggiamento italiano durante la crisi di Suez già molto è stato detto e scritto: si può ad esempio ricordare che nel 1955 l'Italia era stata il quarto utilizzatore del canale a livello mondiale, in termini di passaggi e di merci trasportate e che il 41 per cento del petrolio importato dal nostro paese transitava dal canale: in una relazione predisposta nel settembre 1956 dal ministero dell'Industria su richiesta della Farnesina, si affermava con preoccupazione che, a causa della difficoltà di individuare fonti di approvvigionamento alternative, l'eventuale chiusura del canale avrebbe comportato la necessità di una drastica riduzione dei consumi e della produzione e si prefigurava la minaccia reale di una crisi senza precedenti nei porti italiani e in tutti i settori economici legati al traffico di merci attraverso il Mediterraneo orientale.
Se molto si sa della politica ufficiale del governo italiano nei mesi che trascorsero dall'annuncio della nazionalizzazione all'intervento franco-britannico a Suez, molto meno sappiamo dell'atteggiamento dell'ENI in quegli stessi mesi.
Intanto, può essere utile sapere che il governo egiziano affidò l'incarico di direttore generale del nuovo ente di gestione del canale a Mahmoud Younes
Inoltre, uno dei maggiori problemi per gli egiziani fu sostituire i piloti stranieri della compagnia, che a settembre lasciarono Suez: al momento della nazionalizzazione, erano 205 i piloti di varia nazionalità che prestavano servizio alle dipendenze della Compagnia, accompagnando le navi da un'estremità all'altra della via d'acqua. I dirigenti della Compagnia calcolavano che gli egiziani, una volta privati della collaborazione dei piloti stranieri, sarebbero stati in grado di garantire il passaggio solo al cinquanta per cento delle navi in attesa ai due estremi del canale; ciò avrebbe inevitabilmente comportato un allungamento dei tempi di attesa e un caos crescente.
Il primo problema per i nuovi gestori, perciò, era assicurare la presenza di un numero sufficiente di piloti, in vista del probabile ritiro da parte della Compagnia di quelli che fino a quel momento erano stati alle sue dipendenze. Fra le misure intraprese per scongiurare questo rischio vi fu il lancio di una campagna di reclutamento di piloti stranieri, in grado di sostituire i dipendenti della Compagnia.
Mattei si dette molto da fare per trovare piloti italiani disposti a trasferirsi in Egitto, tanto da infastidire il Foreign Office britannico, che intervenne sulla Farnesina per impedire che cittadini italiani fossero impiegati dal nuovo ente di gestione del canale. Mattei riuscì a trovarne solo tre, a Genova, e nessuno impedì loro di accettare l'impiego in Egitto.
Il governo italiano aveva in effetti ricevuto da Londra e da Parigi l'invito a non consentire l'espatrio a quei marittimi che avessero dichiarato l'intenzione di trasferirsi in Egitto alle dipendenze della nuova Autorità di Gestione. La replica fu cortese ma tutt'altro che soddisfacente: la Farnesina informò che non era nelle sue facoltà adottare alcuna misura intesa a evitare che piloti italiani accettassero offerte di lavoro da parte dell'ente egiziano incaricato della gestione del canale; nell'eventualità, ritenuta assai improbabile, che un cittadino italiano avesse richiesto un visto per l'Egitto dichiarando la propria intenzione di prestare servizio come pilota lungo il canale, le autorità italiane dichiararono che avrebbero comunque fatto del loro meglio per dissuaderlo.

Oltre ad agire come agenzia di reperimento di personale specializzato per le autorità egiziane, nelle stesse settimane Mattei non cessò di intervenire presso l'opinione pubblica italiana per orientarla quanto possibile in senso favorevole all'Egitto. Con questo obiettivo fu promossa una campagna di stampa, utilizzando le colonne de Il Giorno, di proprietà dell'ENI, e Il Tempo, quotidiano in parte controllato dallo stesso ente; obiettivo principale della campagna di stampa era rassicurare l'opinione pubblica e i circoli economici italiani riguardo alle capacità tecniche e organizzative degli egiziani di fronte alla responsabilità di gestire il canale di Suez. Nel sottolineare queste capacità, i due giornali non mancarono di illustrare la competenza e la preparazione del nuovo direttore dell'Autorità di Gestione, del quale venne ricordato il lungo curriculum.

Alla fine di ottobre, la crisi entrò nella sua fase più drammatica: le truppe anglo-francesi vennero paracadutate su Suez, dopo che l'esercito israeliano era penetrato in territorio egiziano e aveva occupato il Sinai fino al lato orientale del canale. Gli scontri che ne seguirono portarono al blocco del traffico navale, non solo per evidenti motivi di sicurezza ma anche a causa dell'affondamento di ventidue imbarcazioni e del bombardamento di due ponti ferroviari che attraversavano il canale.
Gli eventi bellici che interessarono la penisola del Sinai e il canale di Suez fra la fine di ottobre e l'inizio di novembre del 1956 ebbero conseguenze dirette sulle attività e sugli interessi dell'ENI e delle società consociate. Nella loro penetrazione militare verso occidente, le truppe israeliane occuparono anche le aree dove erano collocati e pozzi e gli impianti della International Egyptian Oil Company (IEOC), che fu costretta a interrompere l'estrazione di greggio. Dopo aver dissuaso le autorità militari egiziane dal distruggere le installazioni petrolifere, i tecnici italiani e stranieri lasciarono i campi petroliferi fra il 2 e il 3 novembre, ma trentadue italiani, durante il trasferimento verso Suez, furono fermati dai soldati israeliani e trattenuti in custodia presso l'ospedale della cittadina di Sudr, cento chilometri più a nord. Solo l'8 novembre gli italiani furono autorizzati a ripartire per Suez, da dove poi raggiunsero il Cairo.
Già il 13 novembre Enrico Mattei comunicò al presidente del Consiglio e al ministro degli Esteri una prima valutazione dell'entità dei danni subiti dalle proprietà dell'ENI nel Sinai occidentale, a causa dei saccheggi e delle asportazioni di materiale operati da soldati israeliani. Nella stessa nota, il presidente dell'ENI, dopo aver ricordato la rilevante entità degli interessi italiani nella penisola del Sinai, chiedeva "di voler continuare la più efficace azione presso il governo israeliano affinché ci vengano al più presto restituiti tutto il materiale e le attrezzature che sono stati arbitrariamente asportati, ci siano risarciti i danni e siano tutelate le nostre proprietà nella zona pervenuta in mani israeliane, in conformità con il comportamento che sarebbe stato tenuto per gli interessi inglesi riguardanti i campi petroliferi della Shell". Un atteggiamento diverso, concludeva Mattei, non poteva trovare alcuna giustificazione nelle operazioni belliche in corso e sarebbe stato un "misconoscimento dei diritti italiani".


I nuovo acordi con Egitto e Iran

Il 1957 fu un anno di svolta per l'azione dell'ENI in Medio Oriente. Il 14 marzo venne stipulato un contratto fra l'AGIP e il governo dell'Iran, che dette vita a una società mista, la Société Irano-Italienne des Pétroles (SIRIP), le cui quote di possesso erano attribuite per il 51 per cento all'ente italiano e per il 49 per cento al partner iraniano. In base al nuovo contratto, l'Iran otteneva il 75 per cento dei profitti derivanti dalle attività congiunte. Questa nuova formula innovava improvvisamente e profondamente lo schema fino a quel momento generalmente applicato, che prevedeva solo una concessione dei diritti di sfruttamento del sottosuolo (e non la creazione di una società mista) e l'attribuzione paritaria, del 50 per cento, degli utili a ciascuna delle due parti di un contratto per lo sfruttamento delle risorse petrolifere di un paese.
Fra le varie caratteristiche dell'accordo con l'Iran, una apparve particolarmente allarmante agli occhi dei dirigenti delle Sette Sorelle: non tanto l'aver infranto lo schema del "fifty-fifty", quanto l'aver introdotto il principio della società mista fra una compagnia occidentale e le autorità di governo di un paese in via di sviluppo, riconoscendo a queste ultime il diritto di partecipare attivamente e su un piede di parità allo sfruttamento delle risorse e al controllo della produzione. Questo aspetto, a giudizio delle multinazionali del petrolio, significava introdurre un elemento di rivendicazione nazionalista da parte dei paesi produttori, che avrebbe potuto incidere pericolosamente su un aspetto assai delicato, quello della decisione circa le quantità di greggio da estrarre e da immettere sul mercato mondiale.

Non c'è alcun dubbio che l'accordo con l'Iran abbia rappresentato un momento di rottura dei tradizionali schemi di gestione delle attività petrolifere e abbia dato origine a un nuovo modo di interpretare i rapporti fra compagnie straniere e paesi produttori, poi ricordato come "formula ENI".
Un aspetto interessante della vicenda è rappresentato dal fatto che quanto concordato con l'Iran nel marzo del 1957, e che tanto clamore suscitò in Italia e all'estero, era già stato applicato un mese prima nel contratto che l'ENI e la Petrofina avevano siglato con le autorità egiziane: il 9 febbraio, infatti, era stata creata la Compagnie Orientale des Pétroles d'Egypte (COPE), detenuta per il 51 per cento dalla IEOC (a sua volta controllata da ENI e Petrofina), per il 29 per cento dalla General Petroleum Company e per il 20 per cento dalla Société Coopérative des Pétroles, entrambe enti pubblici egiziani.
Il personale alle dipendenze della nuova società petrolifera egiziana raggiunse nel 1958 il numero di mille unità: di queste, il personale impiegatizio, amministrativo e operaio era costituito da lavoratori locali, mentre i quadri tecnici era formati sostanzialmente da italiani (oltre quaranta addetti fra ingegneri, perforatori e meccanici specializzati), affiancati da tre belgi e da alcuni validi elementi egiziani. Presidente della nuova società venne nominato Mahmoud Younes, che in quel momento ricopriva anche l'incarico di direttore generale dell'Autorità di Gestione del canale di Suez. Younes era coadiuvato da due amministratori delegati, un italiano e un belga.
Gran parte degli impianti necessari alla produzione (serbatoi di stoccaggio, oleodotti, sistemi di pompaggio e altro) furono forniti dalla SNAM Montaggi, società del Gruppo ENI, mentre la Nuovo Pignone fornì gli impianti di perforazione.
La produzione di greggio della COPE era inizialmente limitata a due giacimenti nel Sinai, a Bala'im, già sfruttati dalla IEOC e da questa conferiti alla nuova compagnia valutandone il solo costo delle ricerche e non il valore delle ingenti riserve di petrolio accertate. Nel primo anno vennero estratti due milioni di tonnellate, per un terzo raffinate e distribuite nel paese, per due terzi esportate in Italia e là raffinate. Era intenzione dei dirigenti della COPE ampliare i campi di attività, dalle ricerche petrolifere allo sfruttamento dei giacimenti, alla raffinazione e commercializzazione dei prodotti petroliferi.
Con questo obiettivo già nella primavera del 1957 vennero avviati nuovi sondaggi nell'area di Abu Rudais, ancora del Sinai meridionale, dove venne subito individuato un giacimento, che negli anni successivi si sarebbe rivelato assai consistente (per gli standard del paese).
I soci italiani della COPE erano però desiderosi di ampliare ulteriormente le ricerche e di intensificare lo sfruttamento dei pozzi già attivi: a questo scopo, nel settembre 1958 il ministero degli Esteri e la presidenza del Consiglio ricevettero un memorandum degli uffici tecnici dell'ENI, nel quale si richiedeva l'intervento a sostegno delle attività italiane in Egitto, citando in particolare l'interesse dell'AGIP Mineraria per l'assegnazione alla COPE dei diritti di esplorazione e di sfruttamento di un'area sottomarina al largo di Bala'im, che secondo i sondaggi effettuati sembrava molto promettente.
Nel dicembre dello stesso anno Mattei tornò di nuovo al Cairo per definire la concessione di nuove licenze alla COPE: si trattava delle prime licenze per esplorazioni sottomarine, fino ad allora mai tentate in Egitto. Le nuove concessioni, secondo i calcoli dell'ENI, avrebbero dovuto incrementare la produzione di greggio estratta dalla COPE da 2 milioni di tonnellate a 6-8 milioni l'anno.
Nell'estate del 1960, in occasione della crisi in Congo, il presidente egiziano assunse un atteggiamento fortemente critico nei confronti della condotta del governo belga e si unì alla condanna espressa dai paesi non allineati nei confronti dell'intervento dell'ex potenza coloniale nel paese africano. Come conseguenza diretta di quella crisi, le autorità egiziane imposero l'uscita della compagnia belga Petrofina dalla partecipazione nella IEOC, la società a capitale internazionale che possedeva la COPE in joint-venture con il governo del Cairo. L'unica offerta di acquisto del 40 per cento delle quote IEOC possedute dalla Petrofina fu avanzata dall'ENI, che così, attraverso l'AGIP Mineraria, giunse a controllare il 90,74 per cento della IEOC.
Nel 1961 la IEOC cedette al governo egiziano l'uno per cento delle quote COPE in suo possesso: con questa operazione l'assetto proprietario della COPE mutò dal 51 per cento della IEOC e il 49 dei partner egiziani, per passare al 50 e 50.

La stessa formula fu poi applicata all'accordo con la Libia del marzo dello stesso anno (mai ratificato dal parlamento di Tripoli a causa dell'opposizione di Washington), all'accordo con il Marocco nel 1958 e a quello con la Tunisia nel 1960.
In quegli anni Mattei si presentava come la controparte ideale per quei paesi dove si andavano affermando le istanze di autonomia e di cogestione economica delle proprie risorse: il modello della società mista prospettava per la prima volta la possibilità di spartire paritariamente oneri e vantaggi e consentiva ai paesi produttori un effettivo controllo della produzione, che fino a quel momento era rimasto ben stretto nelle mani dei dirigenti delle compagnie straniere. "Con questo accordo […] i rapporti con i paesi che dispongono di potenziali risorse di petrolio vengono impostati su nuove basi, che tengono in giusto conto i diritti dei paesi interessati dando a questi la possibilità di partecipare in forma diretta allo sviluppo e alla messa in valore delle loro risorse petrolifere; […] ciò non potrà non avere notevoli ripercussioni in tutti i paesi del mondo arabo produttori di petrolio".


Da titolare di concessioni a partner del governo egiziano

Nel novembre 1961 la presenza dell'ENI in Egitto compì un secondo salto di qualità: Mattei tornò al Cairo per firmare un importante accordo, che portava l'ENI a essere un partner diretto delle autorità egiziane, non più attraverso società da essa controllate (come la IEOC) e non solo nel settore delle risorse petrolifere: l'ENI accettava di collaborare alla realizzazione del piano quinquennale di sviluppo del paese: fra i settori nei quali si sarebbe avviata la collaborazione non vi era solo la ricerca e lo sfruttamento delle risorse petrolifere, ma la realizzazione di impianti petrolchimici, la progettazione di infrastrutture a uso civile, la supervisione dei lavori pubblici e della costruzione di complessi industriali, l'assistenza nella fase di avvio di nuove fabbriche, nonché nella fase della produzione e della commercializzazione dei prodotti, oltre allo scambio di informazioni di carattere tecnico.
Nello stesso accordo si stabiliva la cessione da parte dell'ENI e delle sue consociate di macchinari per la perforazione, di materiali per oleodotti e serbatoi e per la costruzione di un'industria petrolchimica a Suez, per un valore complessivo di trenta miliardi di lire. Tale cifra sarebbe stata pagata dall'Ente per il Piano Quinquennale in tredici anni, con un tasso del 4,5 per cento annuo; i pagamenti potevano avvenire in valuta o in forniture di greggio.
In occasione di quel viaggio al Cairo, Mattei espresse ancora una volta la sua ammirazione per gli sforzi che l'Egitto stava compiendo per promuovere lo sviluppo economico e sociale della sua popolazione; ciò accresceva il valore e l'importanza della cooperazione che l'ENI intendeva offrire a quegli sforzi di modernizzazione. "Noi crediamo nel futuro dell'Egitto e nelle sue possibilità di divenire un grande produttore di petrolio e un paese industrialmente sviluppato. Ciò richiede, però, tempi rapidi di realizzazione. […] E' una lotta contro il tempo".


L'ENI in Iraq

Ma nonostante la grande simpatia e cordialità di rapporti, in Egitto non vennero trovare quantità rilevanti di petrolio. Divenne quindi necessario cercarlo altrove, per sostenere la capacità di raffinazione degli impianti che il gruppo ENI possedeva in Italia e che in quel momento erano sottoutilizzati. Nel 1958, subito dopo il colpo di Stato a Baghdad, il nuovo regime iracheno studiò la possibilità di sostituire l'esperienza e la tecnologia della Iraq Petroleum Company senza mettere a repentaglio la produzione di greggio: a questo miravano le consultazioni avviate con Mattei, volute da Baghdad e prontamente interrotte dalle immediate e decise pressioni del governo britannico e dei responsabili della Ipc.
Nessuno a Baghdad poteva realisticamente pensare di estromettere le compagnie anglo-sassoni dal paese, perché ciò avrebbe significato gravissime perdite per il Tesoro iracheno, che grazie agli introiti petroliferi in quegli anni riusciva a coprire la metà della spesa pubblica.
Per questa ragione il nuovo leader iracheno, Qassem, riprese il negoziato con la Ipc che era già stato avviato dal governo precedente, nella speranza di giungere a una revisione degli accordi del 1925: il governo rivoluzionario sperava di poter ottenere la rinuncia della Ipc su alcune delle aree ottenute in concessione ma mai sottoposte a sondaggi esplorativi (così da poterle assegnare ad altre compagnie) e una più favorevole suddivisione degli utili, sull'esempio di quanto l'anno precedente era stato concordato fra l'AGIP e l'iraniana Nioc.

Intanto, in nome e nel solco della Rivoluzione Immortale, il governo iracheno prese parte attiva nella creazione della prima organizzazione di paesi esportatori di petrolio, l'OPEC. L'episodio che convinse i governanti di alcuni dei paesi produttori più importanti a sfidare le compagnie occidentali si verificò nell'estate del 1960: il 9 agosto, sei giorni prima della ripresa del negoziato fra Ipc e governo iracheno, la Standard Oil of New Jersey annunciò la decisione di ridurre del 7 per cento il prezzo ufficiale del suo petrolio mediorientale (prezzo sulla base del quale erano calcolati i proventi per i paesi produttori, anche se il prezzo di vendita reale fluttuava su livelli più bassi) e fu subito imitata da altre compagnie. La notizia fu accolta con grande indignazione in tutto il mondo arabo: oltre a vedersi decurtare le entrate, i paesi produttori lamentavano la circostanza che la decisione era stata presa unilateralmente, senza consultazioni preliminari, e andava incontro agli interessi commerciali delle compagnie petrolifere ma non a quelli dei paesi esportatori.
Un mese più tardi, in risposta all'iniziativa unilaterale delle compagnie occidentali e a testimonianza del loro sostegno al governo iracheno impegnato nel negoziato con la Ipc, su iniziativa del ministro saudita degli Affari Petroliferi, Abdullah Tariki, e del suo collega venezuelano, Juan Pablo Perez Alfonzo, si riunirono a Baghdad i rappresentanti di Arabia Saudita, Kuwait, Iran e Venezuela per dare vita, insieme all'Iraq, alla Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (che sarebbe stata chiamata OPEC, utilizzando l'acronimo inglese); il Qatar, che partecipò al vertice come osservatore, vi aderì subito dopo, mentre Libia e Indonesia entrarono a farne parte negli anni successivi.
L'obiettivo della nuova organizzazione, i cui membri detenevano circa l'80 per cento delle esportazioni petrolifere mondiali, doveva essere "l'unificazione delle politiche petrolifere dei paesi membri e l'individuazione delle misure più opportune a garantire i loro interessi". Fra queste si citava già il controllo della produzione (che poi sarebbe divenuto il principale strumento in mano all'OPEC), pur con l'ammissione della necessità di dover considerare anche i bisogni dei paesi consumatori.
Chi non si lasciò sfuggire l'occasione della creazione di un cartello fra i paesi produttori per affermare il proprio punto di vista fu Enrico Mattei: il coordinamento delle politiche petrolifere da parte dei maggiori paesi esportatori richiedeva, secondo il presidente dell'ENI, la creazione immediata di un organismo che fosse espressione degli interessi dei paesi consumatori: il nuovo organismo, che avrebbe così potuto negoziare con l'OPEC su un piede di parità, doveva naturalmente essere formato dai singoli governi nazionali dei paesi importatori, e le politiche energetiche di questi paesi ne avrebbero tratto nuovo vigore e maggiore impulso. Era chiaro che, se una compagnia pubblica come l'ENI poteva probabilmente ottenere benefici da una simile iniziativa, le compagnie petrolifere private si sarebbe trovate in una posizione di difficoltà, perché sarebbero state chiamate ad agire nel quadro delle indicazioni fornite dai governi. D'altronde, secondo il ragionamento di Mattei, il settore petrolifero rappresentava un elemento essenziale per lo sviluppo delle economie nei paesi industriali, ed era quindi pericoloso lasciarne il controllo alle compagnie private: sulla scia di quanto realizzato dai paesi produttori, al caos della libera iniziativa, mossa da valutazioni esclusivamente commerciali, doveva subentrare l'ordine dell'intervento governativo, dettato dal pubblico interesse.

Del coinvolgimento dell'ENI nello sfruttamento delle importanti risorse petrolifere dell'Iraq si tornò a parlare durante la grave crisi che seguì la fine del protettorato britannico sul Kuwait: il 19 giugno 1961 il governo di Londra ritirò la propria presenza militare dall'emirato, lo riconobbe come uno stato sovrano e accettò di fornire, in caso di necessità, la propria assistenza per proteggere la sua indipendenza. Il 25 giugno, durante una conferenza stampa a Baghdad, il presidente iracheno annunciò solennemente che il Kuwait era, ed era sempre stato, parte dell'Iraq. "La repubblica irachena non cederà un solo centimetro della sua terra. […] Quando affermiamo questo, significa che siamo in grado di realizzarlo".
In rapida successione, l'emiro del Kuwait richiese la protezione della Gran Bretagna, le truppe britanniche tornarono in Kuwait, il governo di Londra presentò al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una risoluzione con la quale si richiedeva a tutti gli stati membri di riconoscere l'indipendenza del paese, mentre l'Iraq presentò una propria risoluzione, affermando le sue intenzioni pacifiche verso il Kuwait e richiedendo l'immediato ritiro delle truppe britanniche.
Quando il Consiglio di Sicurezza, reso impotente dai veti incrociati, constatò l'impossibilità di approvare le due risoluzioni, la questione venne portata in seno alla Lega Araba. Nonostante le vibranti proteste dell'Iraq, la Lega ammise il Kuwait come nuovo membro, richiese il ritiro del contingente inglese e garantì lo spiegamento di una forza multinazionale, composta da truppe dei paesi arabi: quando questo fu realizzato, il regime di Baghdad annunciò il proprio ritiro dalla Lega Araba e ruppe le relazioni diplomatiche con i paesi che riteneva responsabili di quella decisione (primo fra tutti l'Egitto).


Un'occasione d'oro

Nelle settimane successive allo scoppio della crisi per il controllo del Kuwait riemersero con forza i timori di una possibile nazionalizzazione della Iraq Petroleum Company da parte del governo di Baghdad, ormai ai ferri corti con la Gran Bretagna e alla disperata ricerca di un qualche risultato positivo per rafforzare la propria immagine sul piano interno e su quello regionale. Molti ritennero che fosse intenzione di Qassem far coincidere le celebrazioni del terzo anniversario della rivoluzione, fissate per il 14 luglio, con la decisione di procedere alla nazionalizzazione della Ipc, sull'esempio di quanto avvenuto cinque anni prima con l'annuncio della nazionalizzazione della Compagnia del Canale da parte di Nasser.
La concreta possibilità di adottare una decisione così grave era però strettamente connessa alla capacità per l'Iraq di mantenere in funzione la propria industria petrolifera e di riuscire a trasferire il greggio verso i mercati europei, in modo da non dover rinunciare ai profitti che derivavano dalla commercializzazione dell'oro nero.
Così, nell'estate del 1961 il desiderio di Mattei di tentare altrove il 'colpo grosso' che non era riuscito in Egitto incontrò l'interesse di Qassem per una compagnia che, grazie ai suoi tecnici e alla sua rete di distribuzione in Europa, sembrava in grado di sostituire l'Ipc nello sfruttamento del petrolio iracheno. "Abbiamo la nostra esperienza - dichiarò Mattei nel luglio di quell'anno - Abbiamo a disposizione migliaia di ingegneri, geologi, chimici e altri specialisti. Attualmente ci troviamo nella stessa situazione delle grandi compagnie petrolifere".
Il 7 luglio 1961 la stampa britannica diffuse la notizia, proveniente da "fonti italiane bene informate", che l'ENI aveva ricevuto un'ufficiale richiesta del governo iracheno, riguardo alle sue capacità e disponibilità a sostituire i tecnici non iracheni dell'Ipc nelle varie fasi dell'estrazione del petrolio e nel mantenimento dell'oleodotto da Kirkuk a Tripoli, sulla costa del Libano. Secondo gli esperti del settore interpellati in quei giorni dai giornalisti, la compagnia italiana sarebbe stata teoricamente la sola in grado di far funzionare efficacemente l'industria petrolifera del paese arabo, oltre alle multinazionali occidentali e ai tecnici sovietici.
Lo stesso 7 luglio la dirigenza dell'ENI si affrettò a informare gli organi di stampa che non vi era stata alcuna richiesta italiana avente per oggetto l'assegnazione di concessioni petrolifere in Iraq (ma non vennero smentiti i contatti sull'eventuale disponibilità dell'ENI, nel caso che le concessioni fino ad allora detenute dalla Ipc si fossero rese disponibili). I responsabili delle compagnie anglo-americane si dichiararono comunque certi che i loro governi non avrebbero esitato a intervenire presso le massime autorità italiane, nel caso che i rifornimenti petroliferi dell'Europa occidentale venissero messi in pericolo da avventate iniziative di chicchessia.
Ma non vi fu bisogno di alcun intervento ufficiale: al termine di un incontro di due ore, il Primo ministro Fanfani e il ministro degli Esteri Segni diramarono un comunicato attraverso l'agenzia Ansa, nel quale informavano che "le richieste di tecnici italiani [da parte di Qassem] sono state avanzate prima della crisi del Kuwait, ma da parte italiana non vi è stato dato alcun seguito". In realtà, secondo alcuni quotidiani londinesi, il governo italiano non era stato informato di quei contatti intercorsi fra Mattei e la presidenza dell'Iraq.
Il giorno seguente le autorità italiane informarono i governi alleati di aver chiesto al presidente della maggiore compagnia petrolifera italiana di revocare ogni impegno eventualmente già concordato con le autorità irachene. Di fronte alla dura presa di posizione del governo di Roma, Mattei fu costretto a scoprire le sue carte, osservando che una rinuncia italiana a collaborare con Baghdad avrebbe inevitabilmente aperto le porte della Mesopotamia ai tecnici sovietici.
Il 10 luglio, infine, al termine di una burrascosa seduta del Consiglio dei Ministri, Roma fece sapere di aver disposto affinché non vi fosse alcun invio di tecnici italiani nei campi petroliferi dell'Iraq. In realtà, secondo quanto rivelato negli stessi giorni da alcuni organi di stampa, l'ENI aveva già mandato alcuni tecnici e funzionari nel paese arabo, in un numero probabilmente limitato e compreso fra le quattro e le dodici unità. Solo nella seconda metà di agosto quei tecnici vennero effettivamente richiamati in Italia.

Vale la pena ricordare quanto Indro Montanelli scrisse in quelle settimane riguardo alla burrascosa vicenda che vide protagonisti l'ENI e il governo italiano:

Lui [Mattei] indossa, quando si alza la mattina, il petrolio; trascorre la giornata col petrolio; si corica la sera col petrolio. […] Unico lusso è la pesca. Ma appunto perché, invece che a distrarre, serve a concentrarsi . […] Pescava quando i giornali recarono la notizia che Qassem stava per invadere lo sceiccato del Kuwait e tutte le potenze occidentali prendevano posizione contro questo sopruso. Mentre aspettava che la trota abboccasse, Mattei pensò che era il momento buono per ficcarsi nel 'buco' dell'Iraq, reso tale dall'isolamento diplomatico. Qassem forse dovrà rinunciare al Kuwait ma, se riuscisse ad annetterlo, Mattei gli ha già fornito il personale per gestire l'ENI iracheno. E' un affare. Forse no. Ma potrebbe diventarlo.

Di fronte alla dura presa di posizione del governo di Roma, Mattei fu costretto a scoprire le sue carte. Non rinunciò però a, osservare che il ritiro dell'ENI avrebbe inevitabilmente aperto le porte della Mesopotamia ai tecnici sovietici.
Il presidente dell'ENI dimenticava che, se forse il suo ritiro dall'Iraq avrebbe lasciato spazio alla penetrazione sovietica, intanto il petrolio sovietico stava affluendo in Europa occidentale grazie ai contratti stipulati proprio da Mattei: alla costante ricerca di petrolio a buon mercato per garantire il pieno utilizzo dei suoi numerosi impianti di raffinazione, nell'ottobre del 1960 Mattei firmò un accordo con l'Unione Sovietica che prevedeva l'importazione in Italia di 12 milioni di tonnellate di petrolio sovietico in quattro anni, per un valore complessivo di circa 12 miliardi di lire, che l'ENI avrebbe pagato cedendo a Mosca 240.000 tonnellate di tubi di acciaio, 50 milioni di tonnellate di gomma sintetica, oltre a impianti di pompaggio. Con questo accordo, l'Italia veniva a occupare il primo posto, fra i paesi europei, nelle importazioni di greggio sovietico con 3 milioni di tonnellate annue, contro le 2,8 della Germania Federale, le 2,2 della Finlandia e un milione 400.000 tonnellate della Svezia. In termini di dipendenza dal petrolio sovietico, comunque, l'Italia era in buona compagnia all'interno della Nato: nel 1963, mentre il greggio di Mosca copriva il 25 per cento del fabbisogno italiano, garantiva anche l'11 per cento di quello della Germania Federale, il 40 per cento della Grecia e ben il 93 per cento del fabbisogno energetico dell'Islanda.


Conclusioni

L'attenzione che Mattei dedicò ai paesi del Medio Oriente, inclusi la Turchia e l'Iran, e del Nord Africa, non fu solo il frutto di sue personali valutazioni o il mero risultato di una strategia di impresa, ma si inseriva in un'ampia e consolidata tendenza della politica estera di un paese che, dopo le delusioni patite durante il Ventennio fascista e la seconda guerra mondiale, era alla ricerca di una nuova identità sul piano interno e di un nuovo ruolo sullo scenario internazionale.
A partire dal 1949, quando cioè divenne chiaro che sarebbe stato impossibile recuperare i possedimenti coloniali, la politica estera italiana seguì due fondamentali linee di sviluppo, la prima dettata dal desiderio di non restare esclusa dalle nascenti organizzazioni europee, come l'Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica, il Consiglio d'Europa e il Patto Atlantico, la seconda legata all'ambizione di affermarsi come potenza mediterranea.
L'attenzione alla nascita di una nuova Europa, infatti, non significò per il governo di Roma rinunciare ad avere un proprio ruolo nel Mediterraneo: il crescente nazionalismo arabo, le evidenti difficoltà di Francia e Gran Bretagna, le apprensioni per un possibile allargamento della sfera di influenza sovietica mantennero vivo l'interesse per tutto ciò che stava avvenendo nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, nella consapevolezza che ciò si allineava anche con l'atteggiamento degli Stati Uniti, l'alleato verso il quale la Farnesina guardava con maggiore frequenza.
Sono di questi anni i primi tentativi italiani di proporsi come ponte fra gli interessi dei paesi europei e le aspirazioni del nazionalismo arabo, sfruttando la circostanza di potersi ora presentare come paese anti-colonialista, non avendo più alcun possedimento da difendere. "La nostra ritirata dall'Africa ci dà l'occasione di fare una politica attiva verso il mondo arabo. Saremmo degli inetti se non ne sfruttassimo a fondo la possibilità" scriveva l'ambasciatore italiano al Cairo nel dicembre del 1950.
Di fronte alle oggettive difficoltà che impedivano a Francia e Gran Bretagna di tornare a occupare il ruolo di potenze egemoni in Medio Oriente, l'Italia pensò di poter trovare uno spiraglio per proporsi come trait d'union fra le due sponde del Mediterraneo.

Il risveglio del nazionalismo arabo, guidato da Nasser, e la sconfitta degli anglo-francesi in occasione della crisi di Suez aprirono in effetti nuove prospettive alla penetrazione commerciale, industriale e finanziaria italiana nei paesi della regione. L'atteggiamento di apertura verso questi paesi, sostenuto da Mattei ma anche dal presidente della Repubblica Gronchi e dal segretario della Democrazia Cristiana Fanfani, portarono a una revisione della politica estera italiana, con l'obiettivo di ottenere maggiore libertà di azione per proporsi come costruttori di ponti fra l'Europa, l'Africa settentrionale e il Medio Oriente.
Questo nuovo orientamento, poi definito "neo-atlantismo" si sarebbe presto scontrato con la posizione di tradizionale allineamento con gli Stati Uniti, sostenuta dal ministro degli Esteri Martino, e con la diffidenza di vasti settori della Democrazia Cristiana: fin dall'estate del 1958, la circostanza che Fanfani ricoprisse simultaneamente le cariche di capo del Governo, di ministro degli Esteri e di segretario del partito sollevò diffusi malumori e le sue avventurose iniziative di politica estera offrirono validi argomenti ai suoi oppositori politici. Dopo un vivace confronto in Parlamento, il leader democristiano fu costretto a dimettersi da tutti gli incarichi; alla presidenza del Consiglio fu sostituito da Segni, al dicastero degli Esteri ritornò Pella, mentre alla segreteria del partito fece il suo esordio Aldo Moro.
La stagione politica che si inaugurò nel febbraio del 1959 segnò un ritorno alle tradizionali parole d'ordine della diplomazia italiana, che non solo recuperò le sue caratteristiche più atlantiste e filo-statunitensi, ma cessò anche di essere uno dei temi privilegiati di confronto e di dibattito politico all'interno del paese, come era invece avvenuto negli anni precedenti.

Il giudizio della dirigenza dell'ENI verso l'azione diplomatica del governo italiano in Medio Oriente fu in quegli anni assai critico: le autorità italiane sembravano, a giudizio dell'ENI, disinteressarsi della questione petrolifera, "eppure la questione è così importante che dovrebbe essere alla base di ogni politica araba, come avviene per la politica araba del governo americano e di quello inglese.[…] Agire nel mondo arabo senza seguirne attentamente le correnti e le tendenze e prescindendo dalle questioni che riguardano il petrolio è come cercare di giocare a poker senza assi". Da parte dell'ente petrolifero si manifestava apertamente il rammarico per la scarsa incisività della diplomazia italiana: "L'Italia potrebbe fare moltissimo, ma sono essenziali accurati studi e continui contatti.[…] Sarebbe possibile fare molte cose in tutti questi paesi, a condizione di non andarci a occhi bendati".
Un giudizio così severo, eppure così appropriato, da restare valido ancora oggi.

 
Per il testo integrale del saggio, completo delle note, si rimanda al volume degli Atti del Convegno, di prossima pubblicazione.