Le fonti di energia nella politica "imperiale" dell'Unione Sovietica

Prof. Franco Soglian

Università di Urbino

Abstract

Negli anni '70 e in particolare nella seconda metà del decennio il comportamento internazionale dell'Unione Sovietica assume una piega marcatamente espansionistica e di sfida su tutti i terreni all'altra superpotenza, gli Stati Uniti. Non risulta tuttora facile riconoscere un'ispirazione fondamentalmente offensiva oppure difensiva in una serie di mosse quali la penetrazione nel Corno d'Africa e nel sud del continente nero, lo sfoggio di potenza navale nel Mediterraneo e in altri mari ed oceani, l'invasione dell'Afghanistan dopo un colpo di Stato comunista. L'intraprendenza politica e militare del Cremlino viene comunque percepita in Occidente come una forma di imperialismo per vari aspetti nuova e più temibile che in passato. Essa continua tuttavia a contrastare, e anzi in modo ancor più stridente, con alcuni connotati essenziali della realtà economica sovietica, più tipici di un paese relativamente sottosviluppato che non di un colosso sul piano militare e in parte anche scientifico.
Nella sua struttura interna e nei suoi rapporti esterni, infatti, il sistema economico sovietico è ancora dominato dalle materie prime e in particolare dalle fonti di energia anzichè dalla produzione industriale secondaria. L'estrazione di minerali genera oltre metà del prodotto sociale lordo, assorbe molto più capitale del settore manifatturiero e il suo tasso di crescita supera quello del resto del mondo nel suo complesso. Le fonti di energia, tra le quali il petrolio ha da poco scavalcato il carbone come principale combustibile, costituiscono il settore più importante e propulsivo dell'intero apparato produttivo; il suo peso è accentuato da consumi energetici sensibilmente più elevati che in Occidente a causa di un tipo di pianificazione che non favorisce il risparmio di risorse e di un sistema industriale per lo più obsoleto e in cui prevalgono i comparti a forte input energetico. La priorità di cui costantemente gode nella ripartizione degli investimenti determina un circolo vizioso che protrae l'arretratezza tecnologica. A sua volta, questa finisce col frenare il continuo incremento della produzione petrolifera, che da un tasso medio del 7,8% nel quinquennio 1965-1970 precipita allo 0,8% nei primi anni '80.
Intanto, però, l' "oro nero" svolge una funzione strategica anche in campo esterno, con il crescente rinforzo del gas naturale la cui estrazione non cessa di aumentare a ritmo elevatissimo per tutti gli anni '70. Il petrolio greggio, che figura in testa alle esportazioni sovietiche nei paesi "fratelli" dell'Europa orientale, copre quasi interamente il deficit energetico di Germania-est, Cecoslovacchia, Ungheria e Bulgaria ma anche il fabbisogno specifico della Polonia (ricca peraltro di carbone, largamente esportato) e della Romania (dotata di proprio petrolio). Le relative forniture, in forte aumento sin dagli anni '50 per alimentare l'industrializzazione accelerata dei beneficiari, compiono un ulteriore balzo soprattutto nella prima metà degli anni '70, passando da 39 a 65 milioni di tonnellate.
Mentre le forniture di gas all'Europa orientale si quintuplicano, giungendo al 16% del totale energetico al termine del decennio, quelle di petrolio rallentano la loro corsa nella seconda metà di quest'ultimo, dopo l'esplosione della crisi mondiale che moltiplica per quattro, in una prima fase, il costo del greggio sul mercato internazionale. L'URSS impone allora ai suoi soci un nuovo sistema di calcolo che raddoppia i prezzi delle proprie forniture, lasciandoli tuttavia ben al di sotto delle medie mondiali anche se in misura molto variabile a seconda del valore effettivo attribuito al rublo. Prezzi, dunque, di netto favore, tanto più che in cambio del petrolio e del gas l'URSS importa dai soci soprattutto macchinari e altri manufatti, sopravvalutati rispetto alla loro qualità generalmente bassa e comunque non competitivi al di fuori del "campo socialista". E poichè gli alleati non riescono ad equilibrare gli scambi l'URSS accumula un crescente credito finanziario nei loro confronti, da molti equiparato, in Occidente, ad una sorta di "sussidio imperiale".
E' evidente infatti che un rapporto così squilibrato si spiega con il fondamentale interesse sovietico ad assicurare indirettamente la stabilità dei regimi comunisti nella parte più vecchia dell'"impero" e al tempo stesso a rafforzarne il controllo politico mediante un pesante quanto vitale condizionamento economico. Si è obiettato che il sussidio non è servito proprio con i due paesi meno condizionati: la Polonia, precipitata negli anni '80 nella crisi economica (prima che politica) più precoce e più grave di tutto l'Est europeo, e la Romania, tenacemente attaccata alla sua politica estera relativamente autonoma dal Cremlino; ma l'obbiezione può essere rovesciata diventando un conferma. Resta comunque significativo il fatto che Mosca sia andata incontro alla Polonia in crisi fornendole petrolio e gas a condizioni particolarmente favorevoli e abbia invece punito la Romania (non senza accenti ricattatori) esigendo soltanto da essa il pagamento integrale delle forniture energetiche in valuta pregiata anzichè in rubli cosiddetti trasferibili o mediante baratto.
I soci dell'URSS nel Comecon devono d'altronde fronteggiare la crescente concorrenza dell'altra Europa, quella occidentale, in quanto tradizionale destinataria di esportazioni sovietiche di fonti energetiche che negli anni '70 subiscono anch'esse una vistosa impennata. Il petrolio greggio balza infatti da 33 a 54 milioni di tonnellate all'anno e il gas naturale da poco o nulla ad un equivalente di circa 20 milioni di tonnellate, ormai molto vicino alla quantità fornita all'Europa orientale. Predomina, in questo caso, l'interesse sovietico a procurarsi la valuta necessaria per importare manufatti e beni strumentali di elevato livello tecnologico, che danno un apporto insostituibile (e ugualmente tradizionale) all'ammodernamento dell'apparato produttivo sovietico, come apparente ancorchè illusorio surrogato di riforme economche strutturali cui i dirigenti del Cremlino sembrano avere definitivamente rinunciato. La valuta pregiata occorre inoltre per l'acquisto in Occidente, altrettanto se non ancora più vitale, di cereali, il cui deficit domestico è ormai più o meno cronico.
Si tratta dunque di un altro interesse essenzialmente strategico, che tenderà ad assumere una coloritura più propriamente politica nella prima metà degli anni '80 quando, in piena crisi dei rapporti Est-Ovest e malgrado l'aspra opposizione degli Stati Uniti guidati da Ronald Reagan, Mosca stipulerà con numerosi governi dell'Europa occidentale accordi per la costruzione del grande gasdotto destinato ad approvvigionare i paesi interessati partendo dai giacimenti siberiani. Un "affare del secolo". come viene spesso etichettato, che non solo rischia ma forse anche mira a dividere i suddetti paesi dall'alleato americano.
Inizialmente triplicati grazie alla crisi energetica scatenata dai produttori mediorientali, i proventi che l'URSS ricava dalle sue esportazioni in divisa si rivelano tuttavia effimeri. Lo sforzo di utilizzare i combustibili per soddisfare contemporanemente tre diverse esigenze diventa sempre più difficile a causa, in primo luogo, della declinante capacità sovietica di continuare ad incrementare la loro produzione nonostante la dovizia di riserve più o meno accertate. Il petrolio, soprattutto, risente (come già accennato) del progressivo esaurimento dei giacimenti più agevolmente sfruttabili, ma anche l'estrazione del gas richiede ingenti capitali e una costosa tecnologia specifica in parte reperibile solo all'estero. A ciò si aggiunge il calo delle quotazioni mondiali del greggio che contribuirà a costringere Mosca, nel 1982, a tagliare del 10% le forniture ai propri soci europei (sollecitati a rivolgersi altrove per coprire il proprio fabbisogno oltre che a co-finanziare gli investimenti energetici nell'URSS) e a fare concorrenza sui prezzi ai membri dell'OPEC per mantenere a tutti i costi le proprie posizioni sui mercati occidentali.
Una simile concorrenza, che si registra anche riguardo ad altre materie prime e ad alcuni beni di consumo, suscita naturalmente critiche da parte di vari paesi sottosviluppati o in via di sviluppo e contribuisce ad incrinare relazioni che pure stanno molto a cuore al Cremlino. I suoi portavoce denunciano con sdegno i tentativi "degli imperialisti e dei loro lacchè" di scavare un solco tra il Terzo Mondo e il "campo socialista", suo "naturale alleato", accomunando i paesi capitalisti nonchè neocolonialisti e i paesi socialisti industrializzati in un "ricco Nord contrapposto al povero Sud". Sta però di fatto che, proprio perchè negano di appartenere ad un Nord indifferenziato (non senza qualche buona ragione, come si vede), e pur approvando ufficialmente la rivendicazione terzomondista di un Nuovo ordine economico mondiale, i sovietici si mostrano renitenti ad accogliere per quanto li riguarda le relative proposte concrete, compresa quella per la stabilizzazione dei mercati delle materie prime. Un campo, questo, nel quale preferiscono mantenere piena libertà di manovra oltre che astenersi da impegni finanziari collettivi e generalizzati.
Non manca invece, in determinate aree del Terzo Mondo, un'intensa e crescente attività a livello bilaterale, ossia Est-Sud anzichè Nord-Sud, e comunque di carattere selettivo o, se si preferisce, discriminante. Rilevanti e spesso molto onerosi sono gli impegni economico-finanziari che l'URSS assume nei confronti di paesi con regimi più o meno nuovi di tipo socialista, come Cuba, Vietnam, Etiopia e Afghanistan, e ciò lo fa direttamente oppure tramite (o con l'appoggio) di alleati particolarmente servizievoli o meglio attrezzati come la Germania-est e la Cecoslovacchia, o ancora attraverso il Comecon. A questa categoria di paesi, innanzitutto, ma in linea di principio anche ad ogni altro interessato, Mosca offre, in alternativa alla perpetuazione dello "sfruttamento imperialista" insita a suo avviso nei progetti ispirati all'interdipendenza Nord-Sud, la partecipazione alla "divisione socialista del lavoro" e comunque alla diverse forme di cooperazione multilaterale praticate o abbozzate nell'ambito dello stesso Comecon. In questo quadro, frequente è l'invito sovietico a cooperare principalmente nello sviluppo e nell'utilizzazione delle materie prime, ed è significativa l'assiduità con cui Mosca cerca la collaborazione con paesi non socialisti ma importanti produttori di petrolio come la Nigeria e il Venezuela.
Dato il peso del fattore energetico nel sistema economico interno ed esterno dell'URSS le crescenti difficoltà manifestatesi riguardo alla disponibilità e all'uso delle due risorse più importanti svolgono naturalmente un ruolo di primo piano nella crisi economica finale del "campo socialista". Non solo dell'economia sovietica, cioè, ma anche di quelle degli altri paesi dell'Est, seriamente indeboliti sin dal 1982, come già ricordato, dall'improvviso taglio da parte dell'URSS di forniture di greggio già programmate e costretti ad approvvigionarsi altrove a caro prezzo. Il tutto, beninteso, complice una generale renitenza ad avviare riforme più o meno radicali che solo Gorbaciov tenterà di attuare, forse troppo tardi oltre che in modi e forme molto discutibili.