Negli anni '70 e
in particolare nella seconda metà del decennio il comportamento
internazionale dell'Unione Sovietica assume una piega marcatamente espansionistica
e di sfida su tutti i terreni all'altra superpotenza, gli Stati Uniti.
Non risulta tuttora facile riconoscere un'ispirazione fondamentalmente
offensiva oppure difensiva in una serie di mosse quali la penetrazione
nel Corno d'Africa e nel sud del continente nero, lo sfoggio di potenza
navale nel Mediterraneo e in altri mari ed oceani, l'invasione dell'Afghanistan
dopo un colpo di Stato comunista. L'intraprendenza politica e militare
del Cremlino viene comunque percepita in Occidente come una forma di
imperialismo per vari aspetti nuova e più temibile che in passato.
Essa continua tuttavia a contrastare, e anzi in modo ancor più
stridente, con alcuni connotati essenziali della realtà economica
sovietica, più tipici di un paese relativamente sottosviluppato
che non di un colosso sul piano militare e in parte anche scientifico.
Nella sua struttura interna e nei suoi rapporti esterni, infatti, il
sistema economico sovietico è ancora dominato dalle materie prime
e in particolare dalle fonti di energia anzichè dalla produzione
industriale secondaria. L'estrazione di minerali genera oltre metà
del prodotto sociale lordo, assorbe molto più capitale del settore
manifatturiero e il suo tasso di crescita supera quello del resto del
mondo nel suo complesso. Le fonti di energia, tra le quali il petrolio
ha da poco scavalcato il carbone come principale combustibile, costituiscono
il settore più importante e propulsivo dell'intero apparato produttivo;
il suo peso è accentuato da consumi energetici sensibilmente
più elevati che in Occidente a causa di un tipo di pianificazione
che non favorisce il risparmio di risorse e di un sistema industriale
per lo più obsoleto e in cui prevalgono i comparti a forte input
energetico. La priorità di cui costantemente gode nella ripartizione
degli investimenti determina un circolo vizioso che protrae l'arretratezza
tecnologica. A sua volta, questa finisce col frenare il continuo incremento
della produzione petrolifera, che da un tasso medio del 7,8% nel quinquennio
1965-1970 precipita allo 0,8% nei primi anni '80.
Intanto, però, l' "oro nero" svolge una funzione strategica
anche in campo esterno, con il crescente rinforzo del gas naturale la
cui estrazione non cessa di aumentare a ritmo elevatissimo per tutti
gli anni '70. Il petrolio greggio, che figura in testa alle esportazioni
sovietiche nei paesi "fratelli" dell'Europa orientale, copre
quasi interamente il deficit energetico di Germania-est, Cecoslovacchia,
Ungheria e Bulgaria ma anche il fabbisogno specifico della Polonia (ricca
peraltro di carbone, largamente esportato) e della Romania (dotata di
proprio petrolio). Le relative forniture, in forte aumento sin dagli
anni '50 per alimentare l'industrializzazione accelerata dei beneficiari,
compiono un ulteriore balzo soprattutto nella prima metà degli
anni '70, passando da 39 a 65 milioni di tonnellate.
Mentre le forniture di gas all'Europa orientale si quintuplicano, giungendo
al 16% del totale energetico al termine del decennio, quelle di petrolio
rallentano la loro corsa nella seconda metà di quest'ultimo,
dopo l'esplosione della crisi mondiale che moltiplica per quattro, in
una prima fase, il costo del greggio sul mercato internazionale. L'URSS
impone allora ai suoi soci un nuovo sistema di calcolo che raddoppia
i prezzi delle proprie forniture, lasciandoli tuttavia ben al di sotto
delle medie mondiali anche se in misura molto variabile a seconda del
valore effettivo attribuito al rublo. Prezzi, dunque, di netto favore,
tanto più che in cambio del petrolio e del gas l'URSS importa
dai soci soprattutto macchinari e altri manufatti, sopravvalutati rispetto
alla loro qualità generalmente bassa e comunque non competitivi
al di fuori del "campo socialista". E poichè gli alleati
non riescono ad equilibrare gli scambi l'URSS accumula un crescente
credito finanziario nei loro confronti, da molti equiparato, in Occidente,
ad una sorta di "sussidio imperiale".
E' evidente infatti che un rapporto così squilibrato si spiega
con il fondamentale interesse sovietico ad assicurare indirettamente
la stabilità dei regimi comunisti nella parte più vecchia
dell'"impero" e al tempo stesso a rafforzarne il controllo
politico mediante un pesante quanto vitale condizionamento economico.
Si è obiettato che il sussidio non è servito proprio con
i due paesi meno condizionati: la Polonia, precipitata negli anni '80
nella crisi economica (prima che politica) più precoce e più
grave di tutto l'Est europeo, e la Romania, tenacemente attaccata alla
sua politica estera relativamente autonoma dal Cremlino; ma l'obbiezione
può essere rovesciata diventando un conferma. Resta comunque
significativo il fatto che Mosca sia andata incontro alla Polonia in
crisi fornendole petrolio e gas a condizioni particolarmente favorevoli
e abbia invece punito la Romania (non senza accenti ricattatori) esigendo
soltanto da essa il pagamento integrale delle forniture energetiche
in valuta pregiata anzichè in rubli cosiddetti trasferibili o
mediante baratto.
I soci dell'URSS nel Comecon devono d'altronde fronteggiare la crescente
concorrenza dell'altra Europa, quella occidentale, in quanto tradizionale
destinataria di esportazioni sovietiche di fonti energetiche che negli
anni '70 subiscono anch'esse una vistosa impennata. Il petrolio greggio
balza infatti da 33 a 54 milioni di tonnellate all'anno e il gas naturale
da poco o nulla ad un equivalente di circa 20 milioni di tonnellate,
ormai molto vicino alla quantità fornita all'Europa orientale.
Predomina, in questo caso, l'interesse sovietico a procurarsi la valuta
necessaria per importare manufatti e beni strumentali di elevato livello
tecnologico, che danno un apporto insostituibile (e ugualmente tradizionale)
all'ammodernamento dell'apparato produttivo sovietico, come apparente
ancorchè illusorio surrogato di riforme economche strutturali
cui i dirigenti del Cremlino sembrano avere definitivamente rinunciato.
La valuta pregiata occorre inoltre per l'acquisto in Occidente, altrettanto
se non ancora più vitale, di cereali, il cui deficit domestico
è ormai più o meno cronico.
Si tratta dunque di un altro interesse essenzialmente strategico, che
tenderà ad assumere una coloritura più propriamente politica
nella prima metà degli anni '80 quando, in piena crisi dei rapporti
Est-Ovest e malgrado l'aspra opposizione degli Stati Uniti guidati da
Ronald Reagan, Mosca stipulerà con numerosi governi dell'Europa
occidentale accordi per la costruzione del grande gasdotto destinato
ad approvvigionare i paesi interessati partendo dai giacimenti siberiani.
Un "affare del secolo". come viene spesso etichettato, che
non solo rischia ma forse anche mira a dividere i suddetti paesi dall'alleato
americano.
Inizialmente triplicati grazie alla crisi energetica scatenata dai produttori
mediorientali, i proventi che l'URSS ricava dalle sue esportazioni in
divisa si rivelano tuttavia effimeri. Lo sforzo di utilizzare i combustibili
per soddisfare contemporanemente tre diverse esigenze diventa sempre
più difficile a causa, in primo luogo, della declinante capacità
sovietica di continuare ad incrementare la loro produzione nonostante
la dovizia di riserve più o meno accertate. Il petrolio, soprattutto,
risente (come già accennato) del progressivo esaurimento dei
giacimenti più agevolmente sfruttabili, ma anche l'estrazione
del gas richiede ingenti capitali e una costosa tecnologia specifica
in parte reperibile solo all'estero. A ciò si aggiunge il calo
delle quotazioni mondiali del greggio che contribuirà a costringere
Mosca, nel 1982, a tagliare del 10% le forniture ai propri soci europei
(sollecitati a rivolgersi altrove per coprire il proprio fabbisogno
oltre che a co-finanziare gli investimenti energetici nell'URSS) e a
fare concorrenza sui prezzi ai membri dell'OPEC per mantenere a tutti
i costi le proprie posizioni sui mercati occidentali.
Una simile concorrenza, che si registra anche riguardo ad altre materie
prime e ad alcuni beni di consumo, suscita naturalmente critiche da
parte di vari paesi sottosviluppati o in via di sviluppo e contribuisce
ad incrinare relazioni che pure stanno molto a cuore al Cremlino. I
suoi portavoce denunciano con sdegno i tentativi "degli imperialisti
e dei loro lacchè" di scavare un solco tra il Terzo Mondo
e il "campo socialista", suo "naturale alleato",
accomunando i paesi capitalisti nonchè neocolonialisti e i paesi
socialisti industrializzati in un "ricco Nord contrapposto al povero
Sud". Sta però di fatto che, proprio perchè negano
di appartenere ad un Nord indifferenziato (non senza qualche buona ragione,
come si vede), e pur approvando ufficialmente la rivendicazione terzomondista
di un Nuovo ordine economico mondiale, i sovietici si mostrano renitenti
ad accogliere per quanto li riguarda le relative proposte concrete,
compresa quella per la stabilizzazione dei mercati delle materie prime.
Un campo, questo, nel quale preferiscono mantenere piena libertà
di manovra oltre che astenersi da impegni finanziari collettivi e generalizzati.
Non manca invece, in determinate aree del Terzo Mondo, un'intensa e
crescente attività a livello bilaterale, ossia Est-Sud anzichè
Nord-Sud, e comunque di carattere selettivo o, se si preferisce, discriminante.
Rilevanti e spesso molto onerosi sono gli impegni economico-finanziari
che l'URSS assume nei confronti di paesi con regimi più o meno
nuovi di tipo socialista, come Cuba, Vietnam, Etiopia e Afghanistan,
e ciò lo fa direttamente oppure tramite (o con l'appoggio) di
alleati particolarmente servizievoli o meglio attrezzati come la Germania-est
e la Cecoslovacchia, o ancora attraverso il Comecon. A questa categoria
di paesi, innanzitutto, ma in linea di principio anche ad ogni altro
interessato, Mosca offre, in alternativa alla perpetuazione dello "sfruttamento
imperialista" insita a suo avviso nei progetti ispirati all'interdipendenza
Nord-Sud, la partecipazione alla "divisione socialista del lavoro"
e comunque alla diverse forme di cooperazione multilaterale praticate
o abbozzate nell'ambito dello stesso Comecon. In questo quadro, frequente
è l'invito sovietico a cooperare principalmente nello sviluppo
e nell'utilizzazione delle materie prime, ed è significativa
l'assiduità con cui Mosca cerca la collaborazione con paesi non
socialisti ma importanti produttori di petrolio come la Nigeria e il
Venezuela.
Dato il peso del fattore energetico nel sistema economico interno ed
esterno dell'URSS le crescenti difficoltà manifestatesi riguardo
alla disponibilità e all'uso delle due risorse più importanti
svolgono naturalmente un ruolo di primo piano nella crisi economica
finale del "campo socialista". Non solo dell'economia sovietica,
cioè, ma anche di quelle degli altri paesi dell'Est, seriamente
indeboliti sin dal 1982, come già ricordato, dall'improvviso
taglio da parte dell'URSS di forniture di greggio già programmate
e costretti ad approvvigionarsi altrove a caro prezzo. Il tutto, beninteso,
complice una generale renitenza ad avviare riforme più o meno
radicali che solo Gorbaciov tenterà di attuare, forse troppo
tardi oltre che in modi e forme molto discutibili.