Gheddafi e la nuova strategia del petrolio
in Libia (1970-73)

Dott. Massimiliano Cricco

Università di Urbino

Abstract

Dopo la liquidazione delle basi anglo-americane e l'eliminazione dalla scena politica libica degli oppositori di Gheddafi, nel gennaio 1970, il nuovo Governo libico decise di affrontare subito il problema delle percentuali che le compagnie petrolifere versavano alla Libia, giudicate scarsamente remunerative.
Il 29 gennaio, infatti, iniziarono i negoziati tra le Compagnie petrolifere e un'apposita commissione governativa per la determinazione dei nuovi prezzi del greggio. All'apertura dei negoziati partecipò lo stesso Gheddafi, che avvertì i suoi interlocutori che, nel caso in cui non si fosse giunti a un accordo soddisfacente per la Libia, il Governo del Paese arabo non avrebbe esitato a tagliare la produzione di petrolio. Nonostante le minacce del leader libico, i negoziati fallirono per il rifiuto da parte delle compagnie di alzare il prezzo ufficiale del greggio.
Ai primi di aprile, però, Gheddafi affidò la gestione dei negoziati sul prezzo del petrolio direttamente al maggiore Jallud, suo vice nel Consiglio rivoluzionario, noto per l'assoluta intransigenza verso il mondo occidentale. Alle prese di posizione di Jallud fece seguito la richiesta del Governo di aumentare il prezzo ufficiale del petrolio libico di 40 centesimi al barile, sotto minaccia di ritorsioni se non si fosse giunti presto a un accordo. Le misure più temute erano la parziale nazionalizzazione delle compagnie e la limitazione della produzione, provvedimento, quest'ultimo, imposto alla Occidental Oil Company di Armand Hammer a scopo dimostrativo.
Alla fine di maggio 1970 gli Americani iniziarono a interrogarsi sul futuro degli interessi petroliferi occidentali nel Paese arabo, partendo dalla considerazione che il petrolio era diventato ormai la "principale arma diplomatica della Libia", cui fece seguito la preoccupazione riguardo alle intenzioni del Governo libico verso le più importanti compagnie americane e inglesi, ampiamente giustificata dal fatto che il Consiglio rivoluzionario si stava dimostrando tutt'altro che amichevole con le multinazionali del petrolio e stava quasi sicuramente meditando un piano per indebolirne le posizioni in Libia e per limitare la dipendenza del Paese arabo dalle stesse.
Secondo le analisi statunitensi, sembrava improbabile che i Libici si sarebbero mossi contro gli interessi delle compagnie. Per il momento il Governo di Tripoli si sarebbe accontentato di un aumento del prezzo ufficiale del petrolio libico, che sarebbe servito a rafforzare le posizioni di Gheddafi nel braccio di ferro con le compagnie e avrebbe fatto affluire nelle casse dello Stato ingenti guadagni.
In definitiva, quindi, non sarebbe convenuto al Governo rivoluzionario lanciare una dura offensiva contro gli interessi petroliferi statunitensi in Libia. Quello che preoccupava invece gli Americani erano le azioni di disturbo, di minaccia e le restrizioni contro le singole compagnie, che potevano essere colpite in ogni momento, a seconda della loro vulnerabilità, come aveva dimostrato il caso della Occidental.
La compagnia di Hammer fu la prima a firmare un accordo con il Governo di Tripoli, il 1° Settembre 1970. La formula era quella di un'offerta espressa dalla compagnia e accettata dal Governo come correzione del prezzo ufficiale del greggio, che veniva aumentato di 30 centesimi di dollaro al barile a partire dalla data del contratto. L'accordo prevedeva ulteriori vantaggi economici per la Libia, da determinarsi in percentuale sulla produzione.
Alla Occidental si aggiunsero via via anche tutte le altre compagnie operanti in Libia, negoziando individualmente con il Governo libico accordi separati, ma, nella quasi totalità dei casi, fu accettato l'aumento del prezzo di 30 centesimi al barile.
Nel negoziare l'aumento del prezzo ufficiale del greggio, il Governo libico seguì una strategia basata sulla stipulazione di accordi separati con ciascuna compagnia petrolifera, iniziando dalla Occidental, che era l'anello più debole della catena, già colpita nei suoi interessi con l'imposizione del taglio alla produzione, e dalla quale, pertanto, si poteva ottenere di più. In tal modo si era creato un precedente e anche le altre compagnie si trovarono costrette a accettare l'aumento di 30 centesimi già concordato con l'industria di Hammer.
L'accordo del 1° settembre 1970 aprì la strada a una nuova strategia nella gestione delle risorse petrolifere da parte del Governo libico, in cui le compagnie non erano più i detentori del potere economico, come ai tempi della monarchia, ma diventavano dei veri e propri ostaggi nelle mani della nuova commissione petrolifera e del Consiglio rivoluzionario, cui spettava sempre l'ultima parola sulla delicata materia.
Dal 1970 in poi vi fu un'escalation delle ingerenze del Governo libico sul mercato del petrolio e le compagnie petrolifere furono costrette a subire una politica di continue pressioni, che culminò con l'accordo di Tripoli del 20 marzo 1971, in base al quale le compagnie dovettero accettare l'aumento del prezzo ufficiale del greggio dai 2,55 dollari al barile fissati nel settembre del 1970 al nuovo importo di 3,32 dollari al barile, oltre al rincaro delle imposte governative, che passavano dal tradizionale 50% al 55%, e all'imposizione di una tassa supplementare che veniva quantificata in percentuale sulla quota di esportazioni previste per la compagnia negli anni successivi.
Ai negoziati che portarono alla firma dell'accordo di Tripoli era presente, in qualità di mediatore tra i Libici e le compagnie, il ministro del petrolio saudita Zaki Yamani, profondo esperto del mercato petrolifero mondiale che, interpellato dagli Americani subito dopo i negoziati, ipotizzò l'eventualità di un'imminente nazionalizzazione delle maggiori compagnie petrolifere operanti sul territorio libico e propose, come soluzione, un accordo con il Governo di Tripoli che contemplasse la partecipazione di quest'ultimo alla gestione di tutte le attività delle compagnie, incluse le operazioni di raffinazione e la distribuzione dei prodotti del petrolio. In questo modo il Governo di Tripoli sarebbe divenuto comproprietario delle compagnie e l'introduzione di ogni nuova misura vessatoria nei confronti delle majors avrebbe significato arrecare un danno a se stesso. La partecipazione alle operazioni di trasformazione del petrolio, inoltre, avrebbe rappresentato nella visione di Yamani un'assunzione di responsabilità da parte della Libia nella costruzione di nuove infrastrutture, nuove raffinerie e nell'allargamento della rete di distribuzione dei prodotti petroliferi.
Nella sua analisi della situazione libica, il ministro Yamani non aveva espresso nulla di nuovo rispetto alle sue teorie sulla partecipazione, che si opponevano alla visione del suo predecessore, Abdullah Tariki, che era stato il primo grande fautore della nazionalizzazione delle compagnie petrolifere operanti nei Paesi produttori. Yamani, più moderato e filo-occidentale, temendo che le idee dello sceicco Tariki provocassero uno scontro con Stati Uniti e Gran Bretagna, cui apparteneva la maggior parte delle compagnie, aveva elaborato una strategia di compromesso, in base alla quale, almeno in linea di principio, erano salvaguardati sia gli interessi dei Paesi produttori, sia quelli delle multinazionali del petrolio, in una sinergia che avrebbe dovuto creare ricchezza e stabilità nel mercato petrolifero mondiale.
La proposta del ministro Yamani rimase però inascoltata, e le compagnie non ebbero neppure il tempo di organizzarsi giacché, nel rapido volgere di pochi mesi, il Governo di Tripoli scelse la strada della nazionalizzazione delle principali compagnie straniere, iniziando dalla BP. Il pretesto fu l'occupazione, da parte dell'Iran, di tre isole situate nel Golfo Persico, che erano nominalmente sotto protezione britannica, avvenuta il 29 novembre 1971. Gheddafi accusò la Gran Bretagna di non aver saputo prevenire l'occupazione delle isole da parte degli Iraniani e, per ritorsione, il 7 dicembre annunciò la nazionalizzazione di tutti gli interessi e le proprietà in Libia della BP Exploration Company (Libya). Alla nazionalizzazione della BP seguì un periodo di calma apparente, durante il quale gli Americani si dimostrarono molto preoccupati per i propri interessi economici in Libia; a ragione, dato che all'inizio di ottobre del 1972, la Bunker Hunt ricevette un ultimatum dal Governo libico che le intimava di cedere il 50 % delle sue concessioni e dei diritti di sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Libia, minacciando la chiusura totale degli impianti se la compagnia non avesse accettato entro il 19 ottobre.
Da allora in poi vi fu una vera e propria escalation nella nazionalizzazione delle compagnie straniere, a partire dall'11 giugno del 1973, quando Gheddafi annunciò la completa nazionalizzazione della compagnia americana Bunker Hunt. Il 1° settembre, poi, nel quarto anniversario della rivoluzione, il leader libico decise di completare la riappropriazione da parte del Governo di Tripoli delle risorse petrolifere del Paese con la nazionalizzazione del 51 percento degli interessi e delle proprietà delle nove maggiori compagnie internazionali operanti in Libia , che fu completata nel febbraio del 1974 con l'acquisizione del rimanente 49 percento.
Così, a meno di cinque anni dalla rivoluzione che lo aveva portato al potere, Gheddafi era giunto a liquidare anche gli ultimi interessi economici anglo-americani nel suo Paese.